Torino, Lione, Lisbona, Tirana. E adesso da poco un nuovo studio anche a Milano. Siamo stati da Settanta7, dove - in un'atmosfera rilassata e giovane - ad accompagnarci nella visita è stato uno dei founder, l’architetto Daniele Rangone.
Parliamo di questi nuovi uffici, da poco inaugurati. Come mi racconta questo nuovo spazio e perché la scelta su Milano?
Abbiamo sempre vissuto Milano un pochino da nomadi, nel senso che abbiamo cambiato sei uffici in pochissimi anni. Ora tuttavia credo che abbiamo trovato casa nostra: questi uffici sono pop come noi, assomigliano un pò anche ad un night club, direi disruptive. Quando arrivano degli investitori dall’estero e li vedono rimangono un attimo disorientati: e questo a me piace molto.

C’è un posto che preferisce tra queste stanze e che sente più suo?
Mi piace il terrazzo perchè amo il sole, ed amo anche la parte dell’ufficio rivolta a sud, dove abbiamo delle postazioni occupate dal design team - che poi fondamentalmente fa i concept e quindi crea l'architettura - e mi piace che sia nel lato più più solare dell'ufficio. Forse è quello il posto che amo maggiormente. Poi abbiamo un angolo molto curioso, chiuso da una tenda: è una sala riunioni atipica.

Lei è molto giovane: come si diventa un professionista di successo in un paese dove domina la gerontocrazia?
Io ho 47 anni, li ho appena compiuti: quindi forse, per l'Italia, sono un architetto giovane. Ma la verità è un’altra. Io penso infatti che Settanta7 come studio abbia da sempre una natura dirompente e come le cose dirompenti arrivano in fretta. Mi faccia fare un paragone: nel 1991, dopo che i Nirvana pubblicarono l’album “Nevermind” sono andati a suonare in Europa e, tornando in America -all’epoca non c’era internet - il gruppo si scoprì famoso da un momento all'altro. Ed è stata una cosa rapida.
C’è un'intervista bellissima, una delle poche in cui Kurt Cobain sorride un pochino: ci sono anche Krist Novoselic e Dale Crover. Chiedono loro: cosa vi ha resi così famosi? A cosa dovete il vostro successo? A quel punto Novoselic comincia a replicare il suono della batteria, Dale Croler fa un pò lo scemo mentre Kurt Cobain guarda, ride un pò, poi poi prende un limone, lo schiaccia e dice «tutto questo è punk rock con un pò di limone».
Ecco: io penso che Settanta7 abbia avuto questo effetto dirompente sull'architettura italiana perché - al di là di una ricerca molto efficace - ha poi innestato su questa ricerca elementi che sono quel limone schiacciato da Kurt Cobain, cioè l’essenza pop unita ad un pò di rischio e di visione. Questo ci ha imposto sul mercato.
Io in realtà avrei voluto avere anche tempi più rapidi ma c’è stata la pandemia che ha un filino rallentato il percorso delle cose: però sono discretamente soddisfatto.
Inoltre c’è un altro elemento da considerare: io credo infatti che nella natura di Settanta7 sia lo scardinamento dell'elemento piramidale che c’è in Italia, legato a una firma autoriale con un nome ed un cognome, seguito sotto da una struttura a priramide.

Lo Studio Settanta7 nasce nel 2009: su quali principi si fonda la vostra filosofia progettuale?
La filosofia progettuale di Settanta7 nasce come reazione al percorso universitario mio e di Elena (Rionda, cofondatrice dello studio, ndr): abbiamo avuto professori mediamente vecchissimi che ci hanno impartito una lezione molto dogmatica che consisteva nel dover prendere un’architettura di riferimento e reiterarla per 3-4 decenni per diventare una firma autoriale in quell’ambito.
Ricordo che tutti gli esami ed i laboratori durante il percorso di studi dovevano essere una copia di quello che insegnava il professore di turno. Abbiamo avuto dei docenti molto importanti dell'architettura italiana: io però ho sempre rigettato questa modalità progettuale, sognavo uno studio più camaleontico, in grado anche di rinnovarsi, di stupire, anche di sbagliare ma senza riciclare gli stessi stilemi, gli stessi archetipi, portandoli avanti in maniera indistinta.
Ci stiamo riuscendo, prendendoci dei rischi enormi in verità perché questo significa essere difficilmente collocabili sul mercato: tuttavia vedo che in ambito internazionale oggi le migliori firme dell'architettura di questi ultimi anni hanno un approccio più eterogeneo, se vogliamo anche più olistico a livello di scala.

Realizzate molti edifici pubblici, con un occhio particolare alle scuole ed alle residenze universitarie. C’è qualcosa di più difficile in Italia?
Le dirò: lavorare in ambito pubblico è molto stimolante. Sicuramente non è semplice, tuttavia nella mia esperienza mi sono trovato ad affrontare passaggi professionali che mi hanno messo più in difficoltà, come per esempio lavorare su piccolissima scala.
Le racconto questo: finita l’università sono andato in uno studio di architettura che si occupava di ristrutturazioni di piccoli appartamenti. Una dimensione che ho trovato troppo occlusiva tanto che, quando poi qui abbiamo iniziato ad operare in ambito pubblico, mi è sembrato di trovare il mio mondo.
Per lavorare con il pubblico bisogna essere preparati e strutturati, ma anche pronti ad affrontare un livello di complessità alto
Oltre alle dinamiche del progettare bisogna infatti relazionarsi con una moltitudine di soggetti, quindi bisogna avere un bagaglio di conoscenze molto elevato. Noi qui abbiamo una multidisciplinarietà con diverse figure, in modo da cercare di tenere sempre sotto controllo tutti gli elementi del processo.
Guardando al vostro sito balza all’occhio la parola “community”. Come si lega con uno studio di architettura?
L'importanza di estendere il valore progettuale di quello che facciamo all'intera comunità per noi è molto importante: ma allo stesso tempo, perché questo possa avvenire, è anche importante che ci sia un clima all'interno di Settanta7 che sia in grado di essere sinceramente “community”.
Quindi cerchiamo realmente di prenderci cura delle persone che che lavorano qui, pensiamo di essere abbastanza avanti dal punto di vista del welfare e dell’attenzione alle persone, cerchiamo continuamente stimoli per migliorare la qualità della vita e del lavoro delle persone anche guardando ai paesi europei che sono più avanti dell'Italia rispetto a queste tematiche.

Come dare corpo ad una architettura che sappia farsi carico anche dell’ambiente?
Noi cerchiamo sempre di fare in modo che le architetture rispondano a una sostenibilità ambientale che risponda anche ad una sostenibilità economica e sociale. Mi sento di dire però prima di tutto, per noi, la sostenibilità passa attraverso un'interazione proattiva col territorio nel quale stiamo lavorando, per uno studio attento della comunità per la quale stiamo progettando un determinato tipo di architettura.

Se non sbaglio il legno è un materiale ricorrente nei nostri progetti…
Sì è vero, ci piace moltissimo progettare in legno, anzi direi che è sicuramente il materiale che preferiamo a livello strutturale tanto che abbiamo circa il 75-80% delle nostre progettazioni che hanno una struttura lignea. Diciamo che siamo un pò ambassador di questo tipo di realizzazioni, ci sentiamo molto confidenti di essere capaci di proporle e difenderle anche in comunità dove magari c'è ritrosia ad effettuare questo tipo di percorso.
Per noi aver portato in città come Cosenza o Messina una architettura multipiano in legno è veramente un punto di orgoglio, perché la sensibilità delle comunità non è sempre la stessa.
Tra l’altro ci siamo accorti che il legno risponde ad una criticità presente del mercato italiano, costituito da cantieri che non hanno più manovalanza da impiegare. Questo materiale infatti ha la possibilità di essere lavorato quasi tutto offside - quindi in segheria o in officina- ed è un fattore importante se consideriamo che mancano circa 750 mila unità per finire i cantieri del Pnrr.
Assemblato offside, viene poi montato in cantiere velocemente è questo è un ulteriore valore aggiunto. Le faccio un esempio: abbiamo da poco terminato la struttura della nuova facoltà di ingegneria dell’Università di Padova, per un importo lavori di 23 milioni di euro ci cui 9 e mezzo per il legno.
Abbiamo montato tutto in tre mesi con 6 persone in cantiere: è una cosa che con una struttura tradizionale sarebbe impossibile, ed avrebbe avuto anche un impatto ambientale infinitamente superiore. Quindi viva il legno.

Esiste un progetto a cui è più affezionato?
Potrei dire il prossimo, ma non sarebbe vero (ride, ndr). Le dico quello che è il mio progetto preferito ad oggi: è quello della scuola di Busca (nel Cuneese, ndr). È il preferito perché l'abbiamo vinto un giorno di circa 4 anni e mezzo fa ed in quel periodo vivevo delle difficoltà personali, quindi per me ha rappresentato una sorta di ripartenza. Si tratta della prima scuola in Piemonte che unisce la scuola elementare la scuola media in un istituto senza separazioni verticali o orizzontali, iper anarchica da questo punto di vista.
Sono poi riuscito a coinvolgere Millo (street artist italiano famoso a livello internazionale per i suoi murales, ndr) per dipingere la parte centrale dell'architettura, che adesso è potentissima.
È veramente una scommessa dal punto di vista architettonico. Sembra un oggetto arrivato a Busca dall’alto, come un astronave. Poi sa, le cose cambiano: ma al momento è questo il progetto a cui sono più affezionato.


per commentare devi effettuare il login con il tuo account