Roma, quartiere San Lorenzo: nel nuovo studio di Westway Architects. Immerso nella tradizione, ma che guarda al futuro
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Roma, quartiere San Lorenzo. Basta varcare il cancello: quando si entra nello studio dei Westway Architects (Luca Aureggi, Maurizio Condoluci, Laura Franceschini) è un po' come se il tempo si fermasse e tutta la viabilità accapigliata e concitata della zona cedesse all'improvviso il passo ad una dimensione più lenta e distesa. La magia è proprio questa, ed è frutto di un abile disegno di questi architetti che ci aprono le porte del loro studio per spiegarci la loro visione in questa intervista.  

Architetto Luca Aureggi

Mi racconta il nuovo studio? So che siete qui da poco tempo e prima eravate in via Giulia, nel cuore di Roma.

Arrivare qui nel quartiere di San Lorenzo è stata una emozione incredibile: veniamo da uno studio piccolino che stava in una tra le più belle della città, via Giulia, dove però lavoravamo in circa 80 metri quadrati. La possibilità di avere qui a San Lorenzo uno spazio di quasi 500 metri quadri ci permette invece di avere a disposizione spazi per poter fare mockup di progetti, quindi ricerca sui materiali: forse però la cosa più bella è che comunque questo quartiere ha una vocazione artigianale, è un luogo che stimola alla produzione di materia. 

C’è un grande respiro da questo punto di vista. Io l'ho percepito addirittura dai tempi dell'università. Pensi che con Maurizio (Condoluci, ndr), il mio socio, da studenti universitari venivamo qui a San Lorenzo a trovare i tornitori che realizzavano gli oggetti per i plastici. Si tratta di un posto che veramente sprigiona creatività. 

 

Westway
Studio Westway Architects (Officina Retiquindici), Roma idealista/news

 

Leggo sul vostro sito che il punto di partenza di ogni progetto è quello di “indagine e di studio per ascoltare le tracce del luogo e trovare soluzioni che si proiettino nel futuro”. Cosa vuol dire?

I nostri progetti non partono mai da un’idea preconfezionata. L'analisi del luogo, ma soprattutto anche i desiderata del committente ed i vincoli che ruotano intorno al progetto diventano lo stimolo e il driver per far sì che il progetto nasca con basi solide. Quindi la forma che noi riusciamo a dare al progetto è una risposta a determinate esigenze e spesso i vincoli che abbiamo trovato - contestuali, normativi e paesaggistici- sono stati gli elementi caratterizzanti. E la bellezza del progetto è nata dalle costrizioni che inizialmente potevano sembrare muri insormontabili.

Lavorate in molti ambiti, dall’housing alla riqualificazione di interni, dall’interior al retail, fino alla ristorazione ed agli hotel: in che modo questi ambiti somigliano?

Bella domanda. L'elemento che accomuna un po' tutti questi ambiti è la ricerca del dettaglio. Vede, noi abbiamo cominciato ormai più di 25 anni con un approccio molto residenziale, un pò come tutti gli studi: quindi abitazioni, progetti piccoli. Poi negli anni abbiamo aumentato la scala della progettazione: tuttavia abbiamo mantenuto l’approccio della visione della scala del piccolo anche quando siamo passati ad una scala più grande, ricercando la cura del dettaglio in progetti che riguardavano l’housing, la ristorazione. Questo è sicuramente un tratto del nostro percorso progettuale. 

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Studio Westway Architects (Officina Retiquindici), Roma idealista/news

 

Lei si è formato anche a New York e lo studio gestisce anche lavori importanti all’estero. Come vedono il nostro modo di fare architettura, fuori dall’Italia? 

Ho avuto un'esperienza abbastanza lunga a New York, dove sono rimasto quattro anni dopo aver conseguito un master alla Columbia University: l'idea, nel tornare in Italia, era quella di cercare di introdurre diciamo il “metodo” anglosassone nella valutazione dell'iter progettuale, quindi oltre all’accuratezza del progetto la definizione dei dettagli, un controllo del timing e soprattutto dei costi. 

Nel panorama italiano di quel tempo era una novità: portare un committente a capire che il progetto è qualcosa di più che il semplice schizzo, ma è un percorso a tutto tondo, è molto lungo e faticoso. È stato un processo complicato. 

Come ci vedono all’estero? Noi lavoriamo molto in Etiopia ed abbiamo sviluppato da 5-6 anni progetti abbastanza grandi ad Addis Abeba. In quel contesto c’è sempre l'immagine dell'Italia come brand di qualità. È una situazione un po' differente rispetto al panorama europeo, perché qui la qualità architettonica è molto molto alta: c’è sempre un'attenzione importante verso l’Italia, ed i nostri progetti hanno avuto una grande risonanza. 

Westway
BGI headquarters, Addis Abeba, Etiopia Westway Architects

 

Guardando il sito devo dire che ho lasciato gli occhi su un progetto di una villa su una collina digradante sul mare, a Porto Rafael. Che sfida progettuale è stata?

È stato veramente un progetto molto interessante, perché siamo intervenuti su una situazione edilizia bloccata da molti anni. Noi lavoriamo da molto tempo in Costa Smeralda a Porto Rotondo, Porto Cervo, Porto Rafael:  in realtà quel contesto sprigiona una potenza incredibile. Ci sono formazioni rocciose straordinarie, vegetazioni autoctone: noi però ci siamo trovati di fronte a due cubi - bloccati naturalmente dalla Commissione del paesaggio- che non potevamo neanche stravolgere troppo, perché erano già stati concessionati. 

Quindi abbiamo avuto l'idea di rimodellarli con una sorta di nastro che avvolge gli elementi più duri, che rispondevano poco a quello che la natura in quel luogo consigliava di fare. E questo nastro si sviluppa intorno alle rocce che compongono quel lotto, dove poi abbiamo cercato di fare opera di landscaping, rimodellando il suolo, creando dei terrazzamenti importanti. 

Oggi la villa sembra una specie di sinuosa contaminazione con il contesto naturale, con una serie di scorci ed aperture che permettono di vedere il mare e le rocce. È stata una bella sfida e, posso dirlo? Anche un progetto riuscito.

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Villa Porto Raphael, Sardegna Westway Architects

 

Architetto Laura Franceschini

Ce l’ha un angolo preferito, che sente come suo, in questo nuovo studio?

Sicuramente mi sento più a mio agio nella materioteca, perché si trova nel cuore dell'ufficio -che si sviluppa in lunghezza - quindi è la parte centrale: qui si vive il flusso di tutto quello che succede nello spazio ma si conserva anche una certa intimità. La parte creativa, questo cuore della materioteca dove i materiali ti ispirano, ti circondano e continuano a parlarti sicuramente è il mio posto preferito.

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Studio Westway Architects (Officina Retiquindici), Roma idealista/news

 

Cosa ha pensato la prima volta che è entrata qui, prima della trasformazione dei locali?

Il primo sopralluogo che abbiamo fatto qui ha rappresentato una sorpresa perché avevamo visto solo la forma esterna, la facciata di questa casetta che si distingueva rispetto agli edifici di San Lorenzo. 

L'immagine che conservo di quel giorno, entrando, è di essermi lasciata una città alle spalle per immergermi in un mondo surreale. 

C’era buio ovunque e la luce filtrava da lucernai piccolissimi. Era estate. Abbiamo capito immediatamente che la luce sarebbe stato uno dei fattori che avremmo sposato come concept. Si sentiva. E poi si leggeva nel posto la storia del quartiere, di chi l'aveva occupato in precedenza, si vedeva che era già stato uno spazio creativo, perché i muri raccontavano di scritte e segni del passaggio di altre persone e situazioni. Sicuramente ci ha ispirato immediatamente: diciamo che è stato un sì al primo sopralluogo. 

Il ruolo dell’architetto: oggi può ancora operare da solo? 

Secondo me da solo è un pò limitante. Nel senso che l'architetto singolo perde gran parte della ricchezza di questo mestiere, che si basa su tante competenze, collaborazioni, ispirazioni. Diciamo che a mio avviso tutto quello che possiamo avere da un contesto che ci mette in connessione perde valore se si affronta singolarmente.   
Questa è anche la nostra filosofia: far uscire un nome solo, riconosciuto, non è quel valore aggiunto che invece si ha nel momento in cui si fa una architettura nella quale si riconoscano i criteri di una collaborazione forte, che mostri di avere sotto controllo tutti gli aspetti che poi compongono l’opera. Quindi anche quegli aspetti che potrebbero sfuggire e riaffiorare subito dopo, come per esempio la parte degli impianti, che di solito è una cosa che viene tralasciata e che invece ha un grande volume ed è di grande impatto anche nell'opera. 

Noi crediamo molto nell’interdisciplinarietà e nella condivisione. 

Lo spazio stesso che abbiamo scelto  è più ampio anche rispetto all’organico effettivo dello studio: proprio perché quando abbiamo necessità di condividere un percorso è importante che lo spazio ci sia - noi infatti lo chiamiamo studio a fisarmonica - e che sia uno spazio in cui effettivamente il progetto possa svilupparsi ed amplificarsi. 
Inoltre lavorare singolarmente forse significherebbe ispirarsi solamente alle proprie idee o ad avere a disposizione il proprio immaginario.

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Studio Westway Architects (Officina Retiquindici), Roma idealista/news

 

Ho letto questa frase che vi viene attribuita: “Impattare il meno possibile per non lasciare la nostra impronta o il nostro segno grafico sul terreno, ma creando strutture che rispecchiano la tradizione e che le persone possano riconoscere”. Che vuol dire? 

Impattare il meno possibile è sicuramente un valore che consideriamo nostro. Il problema non è tanto lasciare  un’opera che abbia un valore di tendenza o che sia semplicemente riconoscibile: abbiamo anche un impegno rispetto a quello che trasformiamo ed al terreno che utilizziamo. Impattare il meno possibile significa avere sotto controllo tutti gli aspetti dell’opera, ma anche del contesto.  

La nostra impronta la lasciamo in tanti modi diversi, come l’utilizzo del suolo o il rispetto della parte ecologica. Soprattutto lasciamo un'impronta anche per chi la vive quell'opera, e questo significa creare un ambiente che sia il più accogliente possibile senza dover lasciare il nostro tratto solamente perché deve essere una firma, solo perché poi invece nel tempo dovrà essere ricordato così, piuttosto che fruito. 

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Villa Porto Raphael, Sardegna Westway Architects

 

Questo è un concetto che abbiamo sempre avuto: poi in realtà l'abbiamo anche amplificato quando, per esempio, siamo andati a creare dei progetti come ad esempio come i lodge in Etiopia lo scorso anno. Un progetto in cui effettivamente lasciare un'impronta era un fatto letterale: erano luoghi incontaminati, di spazio vergine, privo di qualsiasi infrastruttura. 

Noi abbiamo cercato di amalgamare il progetto con il contesto, in modo che non risultasse una trasformazione che stravolgesse quello spazio, ma che lo mettesse solamente a disposizione degli abitanti. 

Westway
BGI headquarters, Addis Abeba, Etiopia Westway

 

Il bagaglio dello studio si divide tra la grande e la piccola dimensione. Come sono divisi i compiti con gli altri soci?

Non ci sono divisioni nette, ovviamente. Diciamo che è tutto un crescere costante e condiviso, ci mettiamo a disposizione l'uno con l'altro. Il fatto di essere in tre amplifica le competenze e questo tratto ce lo siamo portati dietro nel tempo, da quando all’inizio ci occupavamo di ristrutturazioni fino alla grande scala. Nel nostro cammino abbiamo mantenuto sempre la stessa attenzione nel grande progetto  come nel dettaglio del piccolo e questo fattore non può essere diviso per ruoli o competenze: diciamo che la nostra è un’opera corale.

Esistono a suo avviso le linee guida per un abitare etico del futuro?

Dobbiamo trovarle  assolutamente, perché l’abitare è in continua evoluzione. Impattare il meno possibile e  trarre dai luoghi in cui andiamo a costruire dei valori condivisi e trasversali è molto importante. Parlo di un benessere portato all'utilizzo di tutti, da poter essere a disposizione di tutti. Il valore etico è l’avere sempre attenzione alle impronte che  lasciamo, in modo tale che siano legate alla vita delle persone e che diano  il minor impatto possibile sull’ecosistema che ci si sta trasformando  intorno a noi.

Architetto Maurizio Condoluci

Come è stato possibile integrare questo studio moderno in una zona con grande tradizione e con cicatrici profonde della seconda guerra mondiale?

Siamo stati per 15 anni in uno studio in via Giulia, accanto a Palazzo Sacchetti, un luogo di una bellezza nota e fascinosa: cercavamo più spazio e soprattutto un tipo di energia e di vita diversa che solo questo quartiere poteva dare. San Lorenzo non è uno dei tipici quartieri della città, perché ha dei suoi bordi, è confinato, è una sorta di borgo all’interno della metropoli: ha la ferrovia che arriva a Termini da un lato, l'università dall'altro, il Verano (il cimitero monumentale di Roma, ndr) e lo scalo di San Lorenzo. Quindi c’è una identità molto forte che chi abita qui sente. 

Gli altri quartieri si aprono, passano da uno all'altro senza soluzione di continuità, questo invece ha un inizio ed una fine. 

E poi ha una storia particolare: nasce come quartiere operaio, quindi con una identità molto sentita, si porta addosso le ferite dolorosissime dei bombardamenti della seconda guerra mondiale ed ha questa vicinanza particolare con il Verano, con la vita e la morte sempre ad un soffio. 

Westway
Studio Westway Architects (Officina Retiquindici), Roma idealista/news

 

Quando lo abbiamo visto, questo immobile era totalmente abbandonato: era stato un centro sociale, prima ancora un laboratorio dove si lavoravano infissi ed all’inizio, probabilmente, un deposito per le carrozze per l’ultimo viaggio (al cimitero, ndr). Quello che ci è sembrato fondamentale all'inizio, è stato non imporre una trasformazione visibile e impattante sull'esterno. Abbiamo cercato di entrare in punta di piedi.

La facciata l'abbiamo lasciata così com'era volutamente, proprio per non esporre un cambiamento che forse sarebbe stato stonato e, nel frattempo, abbiamo costruito degli arretramenti rispetto al perimetro esterno esistente. Abbiamo poi costruito una sorta di filtro visivo ed acustico, anche costruendo queste facciate-vetrate che, paradossalmente  ci hanno dato l'opportunità di ritrovare la città rispecchiata: sì, perché su questi vetri, dall'esterno, la città si riflette miscelandosi con l'immagine che è possibile vedere all'interno. 

Ci è sembrato interessante cogliere questo come spunto poetico per costruire una relazione con la città, con l'idea di essere però aperti al quartiere per eventi o altro. Cioè fare in modo che questo diventi una sorta di piccola piazza interna. 

Quando avete visto per la prima volta questo immobile cosa avete pensato?

Questo posto sprigionava energia potenzialmente straordinaria. 

Il tema era proprio un potenziale inespresso che abbiamo visto da subito. 

Quando abbiamo effettuato il sopralluogo c’era una luce simile a quella della “Vocazione di San Matteo” del Caravaggio: una grande luce, diagonale, stupenda: e poi il buio. Quindi abbiamo dovuto lavorare su una luminosità più morbida e tonda. 

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Studio Westway Architects (Officina Retiquindici), Roma idealista/news

 

Si è invece palesata dal primo giorno la una possibilità molto fluida di avere diverse funzioni all'interno dello spazio, senza però una distinzione netta di ambiti. Questo rappresenta anche quello che siamo noi: difficilmente c'è una distinzione di ambiti nei quali uno fa una cosa è uno e fa un’altra. Ci muoviamo singolarmente, sapendo che da quella sapremo trovare un valore comune.  

Spulciando tra le recensioni sul vostro sito ne ho letta una che dice che il team Westway  è una combinazione unica di creatività, senso estetico e sofisticata capacità tecnico architettonica. In quale parte del complimento si ritrova?

L’identità del nostro studio si trova proprio in questo equilibrio e tra la capacità poetica di trasformare le necessità e le funzioni in un qualcosa di più alto ed evoluto, nella sintesi che le rappresenti, sublimandole. 

Il tema è governare la tecnica da dentro al punto tale da far sembrare che sia solo emozione. 

Ma è solo suggestione: in realtà il percorso è molto più profondo. Costruiamo i progetti con un processo che è di deduzione successiva rispetto alle necessità e alle domande che ci vengono poste, e forniamo risposte adeguate. Non produciamo idee, ma soluzioni, perché sono la risposta a delle esigenze. La conoscenza dell'arte e dell'architettura della forma in generale forma diventa così lo strumento che mettiamo in campo.

Tra noi non c'è una distinzione tra chi analizza le funzioni, chi tecnicamente verifica che siano fattibili e poi chi ne dà una soluzione artistica. È un percorso che facciamo contemporaneamente. 

C’è bisogno anche di una capacità di “zoom”: noi, per esempio ci occupiamo molto interior, per cui entriamo fino all'ultimo dettaglio con una cura maniacale: sui progetti più grandi nei quali la scala diversa apparentemente potrebbe far dimenticare l'attenzione al dettaglio, questa  invece resta come un fil rouge. In questa capacità di gestire lo zoom troviamo la nostra identità. 

C’è un progetto che le è rimasto nel cuore tra i tanti che avete gestito? 
Forse il percorso più potente è lo abbiamo fatto con il gruppo Santa Margherita, perché - vuoi per la dimensione che per il respiro - ci ha permesso di entrare nel fascinoso mondo del vino offrendoci l’opportunità di raccontare l’anima dell’azienda, dandoci modo di confrontarci con una grande dimensione tecnica di cui l'azienda aveva bisogno, inserendo elementi di poesia all'interno di un percorso che non doveva minimamente subire inflessioni per via di scelte architettoniche. Una grande sfida. 

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Cantina di Santa Margherita, Portogruaro Westway Architects

 

Una delle sfide architettoniche con cui vi siete misurati è stata la scoperta di una domus romana durante un intervento di ristrutturazione…

Vero. Era un progetto per la “Italiana Costruzioni” e, già quando abbiamo fatto il rilievo topografico, ci siamo accorti che qualcosa non quadrava. Sapevamo di tracce archeologiche importanti ma lo scavo assistito con gli archeologi ha portato alla luce l’ impluvium di una villa romana del terzo secolo dopo Cristo, con un mosaico in tessere bianche e nere con il nodo di Salomone ed un chiusino in pietra incisa. Abbiamo trovato cinque sepolture. 

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Quartier generale Italiana Costruzioni, Roma Westway Architects

 

La cosa assolutamente straordinaria è che abbiamo trovato nella Sovrintendenza Archeologica la possibilità di un dialogo straordinario, perché  hanno capito che per noi era importante valorizzare ciò che stavamo trovandolo, rimettendolo al centro. 

Siamo riusciti a fare un progetto che con il segno contemporaneo del nostro lavoro è riuscito a segnare il tempo. L'architettura è diventata la misura del tempo trascorso. 

Abbiamo trovato il venticinquesimo salvadanaio integro al mondo. Abbiamo trovato aghi crinali per le acconciature femminili in osso, dadi da gioco, una lucerna bellissima con delle scene d'amore: se non ci fosse stato questo dialogo importante con la Sovrintendenza un cantiere del genere poteva durare 18 anni. Invece è durato 18 mesi. 

 

 

 

 

 

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